Nel celebre spot Telecom di Spike Lee ci si domandava come sarebbe cambiato il mondo se Gandhi avesse avuto a disposizione i mezzi di comunicazione moderni per diffondere il suo messaggio di pace. Qualcuno, all'epoca della fortunata produzione pubblicitaria, si avventurò nell'immaginare, provando un brivido, che cosa sarebbe accaduto se l'ideologia di morte nazista, che già disponeva di una propaganda raffinata (dopotutto Goebbels era un valente giornalista, sic) avesse potuto contare sulla multimedialità. Le grandi innovazioni nella tecnologia dell'informazione sono state spesso sperimentate più al servizio del male che del bene. Le uniche immagini di Auschwitz, prima del 1945, le dobbiamo allo scrupolo e alla precisione di due fotografi delle Ss (Album Jacob); il bimbo che esce dal ghetto di Varsavia con le mani alzate guarda nella camera del suo carnefice. Sfortunatamente Margaret Bourke-White che seguiva le truppe alleate, al momento della liberazione dei primi campi di concentramento, non aveva una webcam e non potè riversare il suo straordinario racconto fotografico del dolore in alcuna rete. La coscienza di ciò che fu l'Olocausto tardò decenni ad emergere nel torpore dell'opinione pubblica, nonostante quel documentario di verità e tante altre testimonianze (le prime, degli stessi internati, non credute per mancanza di prove documentali). Ma nulla può eguagliare, nell'emozione e nell'espressività queste parole: «Considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango. Che non conosce pace. Che lotta per mezzo pane. Che muore per un sì o per un no» (Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1958).
Confesso di averla presa alla lontana. Ma quando si parla di tecnologie dell'informazione, e di come queste possano cambiare il modo di fare giornalismo, mi vengono in mente solo alcune piccole e persino banali considerazioni.
Qualunque sia il mezzo contano l'onestà e la preparazione di chi lo usa. La cura del cronista e la qualità del racconto. Accuracy and fairness. E un contesto politico e sociale che garantisca libertà (nella responsabilità) e pluralismo. Altrimenti quelle tecnologie sono armi tanto suggestive quanto pericolose in mano al potere, nelle sue tante declinazioni (che scolorano nel sangue), o al servizio del male e delle infinite perversioni che pullulano il pianeta (violenza, odio, sesso, schiavitù sono purtroppo protagonisti su internet). Tutto qui. Non è poco ma non è nemmeno tanto. Datemi un buon cronista, una storia (get the story) e la libertà di scriverla o metterla in rete. E poi l'intendence (il web, il video, la carta, il telefonino) suivra.
Ha fatto discutere nelle scorse settimane un articolo di Eric Alterman sul New Yorker, nel quale si preconizza la lenta morte dei giornali di carta. L'autore prende spunto dal modello dell'Huffington Post, che fonda tutto sul dibattito aperto ai navigatori, sul social networking, per seppellire quello che definisce il "dispotismo illuminato" del giornalismo alla Walter Lippman. È vero che internet ha fatto giustizia (meno male) di un modello elitario, e facilmente manipolabile da parte del potere, autereferenziale e un po' sprezzante nei confronti del pubblico. Oggi lettori e navigatori (questa è la sostanziale rivoluzione) sono sullo stesso livello di chi l'informazione la scrive e sono muniti del potere democratico di contrastare, discutere, approvare, integrare in tempo reale qualsiasi notizia circoli. Difficile oggi nascondere qualcosa. A differenza di quello che accadeva un tempo. William Russell, inviato del Times in Crimea a metà dell'Ottocento, il primo grande reporter di guerra, fu ripetutamente censurato. Il suo direttore non voleva passare per antipatriottico pubblicando notizie sgradite sulle condizioni delle truppe inglesi. Un dilemma che non lo avrebbe sfiorato se il suo inviato avesse avuto un blog. Ma non tutto quello che gonfia la rete, nell'orgia dell'intrattenimento, appare ispirato da accuracy and fairness. Wikipedia non è la moderna Biblioteca di Alessandria, e i suoi autori non sembrano sempre dei Montaigne o dei von Balthasar; la realtà non scorre tutta nelle directory di YouTube o Facebook.
Le regole del buon giornalismo appaiono ancora quelle di Edmund B. Lambeth (Committed Journalism). Cinque principi. Verità: senza la presunzione di possederla, nel rispetto della buona fede del lettore. Giustizia: ovvero imparzialità, che non esclude domande scomode, ma distingue cronaca da commento. Libertà: l'indipendenza si tutela se si è liberi, ma anche se non si è scorretti. Umanità: il rispetto della persona i cui diritti soggettivi a volte prevalgono, in assenza di ruoli pubblici, su quelli di critica e di cronaca. Infine, responsabilità, etica della funzione e coscienza del ruolo pubblico della professione. Peccato che queste regole si seguano poco, nella stampa scritta, ma forse ancor di più nel web. Un buon giornalismo fa forte l'opinione pubblica che, se avvertita e informata bene, è l'architrave insostituibile di una democrazia. L'universo delle comunità della rete è espressione irrinunciabile della libertà delle idee e delle opinioni (e Nòva24 ne è la voce). Una condizione necessaria, indispensabile, ma non sufficiente perché si formi una opinione pubblica responsabile. Non è invadendo di fatti privati l'agorà pubblica che si aiuta una società a selezionare una classe dirigente, a scegliere i propri rappresentanti, a disegnare e costruire un futuro, ad avere anima e identità, nonché senso della storia e del destino nazionale. Il web è il presente; il futuro un'ancor maggiore multimedialità.
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